La serata di sabato 26 agosto, secondo appuntamento dell’ottava edizione di Libri nel Borgo Antico, ha visto come mattatore indiscusso del palcoscenico di Piazza Castello un incontenibile Pupi Avati, nome di spicco nel panorama del cinema nazionale e da qualche anno anche scrittore. Avati ha presentato al pubblico della rassegna letteraria il suo romanzo, Il ragazzo in soffitta, una “storia gotica” che richiama quelle favole di paura tipiche, dell’ambiente contadino, che i genitori usavano raccontare ai propri bambini prima della buonanotte. Proprio alla ricerca del brivido il regista bolognese ha dedicato gran parte dei suoi primi lavori per il grande schermo: dalla Bassa Padana di misteri e terrore raccontata ne La casa delle finestre che ridono all’orrore fantascientifico di Zeder. Dopo alcune incursioni nel genere nuovamente nel 1994 con L’amico di infanzia e nel 1996 con L’arcano incantatore, il cineasta ha poi deciso di esplorare altri tipi di narrazione prima di tornare nuovamente sul thriller con Il nascondiglio del 2007. Pupi Avati, quindi, è stato sempre interessato alla rappresentazione visiva della paura e non è un caso se proprio al Festival del Cinema di Bari di quest’anno ha annunciato il ritorno all’horror con il suo nuovo Il signor Diavolo.
Non c’è da meravigliarsi quindi se il suo primo romanzo, che arriva a distanza di qualche anno dalla sua autobiografia, si muove nelle maglie del giallo nell’incrociare le vite di due ragazzi apparentemente così diversi: Dedo, brillante e popolare, e Giulio, timido ed impacciato ma dalla grande cultura. Come sempre avviene in questo genere di storie, un ritorno inaspettato da un passato che si credeva superato getterà un’ombra sul timido quindicenne mettendolo in pericolo. La storia de Il ragazzo in soffitta, per ammissione del suo stesso autore, viaggia su “due treni” diversi. Quello che parte dalla città natale dello scrittore, ovvero Bologna, descritta con un tono familiare e raccontata attraverso il gergo semplice e diretto dei giovani che la abitano, e quello che dal passato parte da Trieste, un luogo che invece Avati decide di romanzare e reinventare descrivendolo in terza persona con un registro più elegante e raffinato. Per il regista Trieste è “una città che non è in sincrono con il resto del Paese ma segue un tempo suo”.
Ma la forza del racconto di Pupi Avati è qualcosa che supera i confini degli schermi cinematografici o quelli della carta stampata. E durante la serata biscegliese tante ne sono state raccontate di storie dal sapore quasi mitologico: di quella volta che voleva spingere giù dall’ultima guglia della Sagrada Familia l’inconsapevole Lucio Dalla, colpevole di suonare il clarinetto meglio di lui, o del giorno in cui stava per cacciare dal set un’attrice di ripiego per il ruolo della protagonista per poi scoprirne il vero talento (quella giovane ragazza si chiamava Mariangela Melato). La voce commossa non ha smorzato per un istante neanche il racconto autoironico della sera in cui uscì per la prima volta con quello “splendore” che sarebbe poi diventato sua moglie. “Mancano cinque minuti alla fine di questo 18 febbraio e nessuno mi ha fatto gli auguri per il mio compleanno”, le sussurrò un innamorato Avati con la speranza di intenerirla e di strappare un bacio. Solo un escamotage prima di rilevare l’inganno: “Io comunque compio gli anni il 3 novembre”.
Sulla soglia dei 79, il cineasta bolognese è oggi considerato uno dei maestri del cinema italiano contemporaneo. Apprezzato in patria quanto all’estero, leggenda vuole che sia stata decisiva la sua pressione su Clint Eastwood per far vincere a Nanni Moretti la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1994. E c’è qualcosa di molto dolce nel modo in cui si prende in giro da solo ripercorrendo con nostalgia gli episodi di un passato glorioso e nel suo tentativo giocoso di fuggire dai rituali della riconoscenza e della referenza. Non vuole farsi chiamare maestro e secondo la sua narrazione è diventato regista solo con lo scopo di far colpo su quelle pochissime ragazze belle che giravano in una città che era popolata all’epoca dalle “donne più brutte del mondo”. “Quello che unisce bambini e anziani è la loro vulnerabilità”, ha spiegato in conclusione il regista. “Adesso io sono nell’ultimo quarto della mia vita, quello in cui si comincia a ricordare e allo stesso tempo a disimparare le cose in cui si è stati bravi un tempo”. Una chiusa malinconica che in qualche modo forse spiega anche il suo crescente interesse verso la letteratura a discapito del cinema: “Quando si scrive un libro la fantasia non ha limiti di budget”.