“L’uomo dell’impossibile”. È questo l’appellativo che Marco Ferrante, scrittore e vicedirettore di La7, ha dato a Sergio Marchionne, il manager che ha rivoluzionato la Fiat con il suo modo di lavorare e di “pensare”, che non rispondeva a logiche di politica industriale o di ricerca del consenso. Il giornalista pugliese è stato ospite delle Vecchie Segherie Mastrototaro di Bisceglie per parlare quindi del suo ultimo libro dedicato all’imprenditore deceduto lo scorso luglio: un lavoro di ricerca ed approfondimento cominciato quasi dieci anni fa, prima con ritratti giornalistici scritti senza aver mai conosciuto di persona Marchionne, ma costruiti grazie alle testimonianze degli amici di gioventù, e poi attraverso un percorso che lo ha condotto ad incontrare più volte l’ex amministratore delegato di Fca (“lui parlava proprio come potete sentire dalla imitazione che faceva Crozza”, ha scherzato Ferrante, cercando di ricondurre ad una dimensione più umana una persona spesso descritta con eccessivo astio da alcuni e ridotta a santino da altri). 

Quello di Marco Ferrante è quindi un libro che cerca di rispondere a diverse domande su di una figura che rimane “misteriosa” per quanto si cerchi di conoscerla a fondo, per via della sua personalità complessa e spesso indecifrabile. Chi era in realtà Sergio Marchionne? Quali sono le ragioni che lo hanno portato al successo? Come è riuscito ad impressionare a tal punto il mondo delle industrie e dell’economia? Tanti sono gli interrogativi che circondano la sua persona anche dopo la sua scomparsa, come ormai inscalfibile è la mitologia che attorno manager hanno creato i suoi estimatori e i suoi detrattori: due narrazioni inconciliabili e spesso fuorvianti. Perché se è innegabile che Marchionne sia stato l’uomo capace di salvare la Fiat, è anche vero che per farlo ha dovuto distruggere tutto ciò che quell’azienda rappresentava per il nostro Paese, smascherando quella inadeguatezza dei governi di cui spesso si lamentava e costringendo la classe dirigente italiana ad ammettere la propria sostanziale inutilità.

Durante i caldissimi anni degli scontri con i sindacati, Marchionne ha di fatto riscritto le relazioni sindacali senza passare dalla mediazione della politica, arrivando nel 2011 persino a dichiarare l’irrilevanza di un baluardo degli imprenditori come Confindustria. Persino poco prima di morire, sul governo che stava per nascere, Marchionne con poche dichiarazioni fu in grado di demolire la principale argomentazione di quell’establishment che ancora ora continua a piangerlo: “Lega e Cinque Stelle non fanno paura, valutiamo i provvedimenti, stiamo parlando di partiti democratici”. Un modo per prendere le distanze da chi definiva queste due forze politiche vicini alla “barbarie” (Financial Times) e contemporaneamente disinnescare e ridimensionare quella che doveva essere la portata rivoluzionaria dell’esecutivo gialloverde.

Così come altrettanto complesso è stato il suo rapporto con i media: nel 2016, ad esempio, Marchionne scelse di chiudere la quarantennale presenza di Fiat nel Corriere della Sera (il giornale che Gianni Agnelli salvò decenni prima). Quasi mai in televisione, rare interviste ai media domestici e riservatissimo sulla sua vita privata, anche la morte del manager è stata “marchionnesca”, secondo la lettura di Marco Ferrante. L’annuncio della sua morte è arrivato quando nessuno se lo aspettava, dopo che Marchionne aveva tenuto “nascosta” la notizia sul suo reale stato di salute per oltre un anno. Si è conclusa così la storia di un uomo che forse pensava di essere più forte del suo male e che è uscito di scena lasciando tutti sgomenti. Per primi, forse, gli stessi proprietari di Fca.