Ferdinando di Annibale Ruccello è anatomia della sopraffazione. Anche nella versione proposta ieri sera al Teatro Politeama dalla compagnia QuiEdOra, al suo debutto, il desiderio di prevaricare l’altro, di possederlo violentemente, muove la narrazione. Il giovane Ferdinando appare in scena per “gettare il proprio corpo nella lotta” (di classe) e come nel Teorema pasoliniano si afferma come ospite misterioso e ambiguo che destabilizza tramite il sesso gli equilibri già precari di una famiglia borghese. Il personaggio (“l’invasore”) è allo stesso tempo carne e presenza fantasmatica che si manifesta (non “entra in scena”, ma appare): spettro del desiderio. “Necesse est enim ut veniant scandala”, si legge nel Vangelo di Matteo (“è infatti inevitabile che avvengano scandali”). L’elemento perturbante del sacro, prima ancora di Pasolini, che darà scandalo con il suo adattamento cinematografico del 1964, era già lì. 

Se Massimo Girotti diceva allo Straniero interpretato da Terence Stamp che “la distruzione causata in lui dal suo arrivo non poteva essere più totale”, così Ferdinando ha il costume dell’angelo visitatore ma non è il Dio che “seduce, violenta e prevale” raccontato da Geremia prima e da Takashi Miike dopo (dove quel prevalere era positivo). La sua presenza, in Ruccello come in Pasolini, conduce all’individualità, al recupero dell’Io, alla dissoluzione del nucleo e non alla sua ricostituzione (pur fondata sulla depravazione) come avviene nel cinema di Miike. Quindi se l’opera di Ruccello conferma il passaggio del testo pasoliniano dalla dimensione sociale (piccolo borghese) a quella psicoanalitica, resta intatto l’interesse perverso (nel suo significato etimologico di rovesciamento e in quello “di assimilazione di Dio in sé” secondo Lacan) dell’ospite.

Quella di Ferdinando è una scena in progressiva “decomposizione”, impossibile da definire come tutte le cose che si logorano. Anche la lingua non sfugge alla provvisorietà: il dialetto si apre ai brandelli di un italiano di ripiego, anch’esso sempre frutto di una privazione consapevole e mai davvero idioma compiuto. Come affermava lo stesso Ruccello, il suo napoletano teatrale è una lingua post-vocalica, “più connesso ad una comunicazione con le vocali che con le consonanti”. Se quindi l’italiano è una “lingua di testa”, il napoletano è la “lingua delle viscere”. Per questo la lingua è “degradata” come i personaggi che ne fanno uso, addirittura sgradevole (il drammaturgo diceva di “subirla acusticamente”) e “afasica”. 

Quello di Ruccello è spesso un “teatro di deportazione”, fatto di personaggi, come la baronessa Clotilde di Lucanigro, che si impongono un “isolamento coatto” per non omologarsi al nuovo contesto che li circonda. La baronessa disprezza la “nuova Italia” nella quale si è ritrovata suo malgrado e sembra trovare conforto solo nei nomi che rimandano ad un passato conosciuto e sicuro (se quindi Ferdinando è un bel nome da re, così come elegante è quello del notaio Giuseppe Trinchera, che mutua il suo cognome dal librettista settecentesco Pietro, anche lui notaio, Amedeo sarà invece descritto come “un angelo che tiene il nome da diavolo”). Resistendo al lento processo di assimilazione, la donna permane come irriducibile forza del passato. Come la zia Léonie de Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, che dopo la morte del marito Octave si chiude nel suo appartamento a Combray, così anche la baronessa di Ruccello vive “in un incerto stato di malessere, debolezza fisica, di idee fisse e devozione”.

In scena Daniela Rubini e Vincenzo Raguseo (anche registi dell’opera) nel ruolo di Donna Clotilde e Don Catello, con Patrizia Colonna e Sabino Di Tullio, rispettivamente Donna Gesualda e Ferdinando. Scenografia a cura di Damiano Pastoressa, consulenza linguistica di Flaviano Cirelli.