Andata in scena ieri, giovedì 14 aprile, in un Teatro Garibaldi non completamente esaurito, la Venere in pelliccia di David Ives, già oggetto della trasposizione cinematografica di Roman Polanski del 2013, è riuscita a catturare il pubblico biscegliese nella sua fitta ragnatela di erotismo e pulsioni latenti, di amore quanto di disprezzo e miseria. Prendendo spunto dal romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, il nuovo adattamento di Ives mette in scena da un lato un regista insoddisfatto (interpretato da Valter Malosti nel ruolo di se stesso) in cerca della musa adatta a vestire i panni della protagonista della sua opera, e da quello opposto una lunatica attrice arrivata fin troppo in ritardo al suo provino. Con indosso quegli “shiny boots of leather” di cui cantava Lou Reed nella Venus in Furs del primo disco dei Velvet Underground, Sabrina Impacciatore è personificazione di una dea vendicatrice, in grado di riportare il “carnefice” al suo ruolo naturale di “vittima”, di smascherarne la tristezza e la piccolezza. Dalla babilonese Ishtar alla Tefnut egizia, le divinità femminili sono state spesso associate alla prorompenza e imprevedibilità dei fenomeni atmosferici, e anche in questo caso ogni gesto della “femme fatale” è accompagnato da tuoni e lampi.

In Venere in pelliccia il sesso è sia potere, la volontà umana di possedere tutto e il suo desiderio di sottomissione, che ribellione, contro una società borghese che priva la donna della propria femminilità. Due tensioni opposte che sublimano la passione, conferendole carica fatale. Per questo, anche il protagonista sarà animato da una masochistica spinta alla autodistruzione, da un desiderio sessuale che trasforma “eros” in “thanatos”, e che si pone come rito purificatore che insieme umilia e glorifica. In questo senso il sentimento amoroso si configura come un paradosso ontologico, essendo cura e distruzione allo stesso momento, rappresentazione sia della vita che della morte. La carne nella Venere in pelliccia di Ives è praticamente assente. Il rapporto di sottomissione è simbolico e non plastico, a differenza del polanskiano Luna di fiele, e si carica di una sacralità e religiosità pagana, o-scena in quanto fuori dalla scena. Ma se in Sacher-Masoch allo scambio di “genere”, al cambiamento sessuale subito dai due protagonisti del romanzo, corrisponde un consequenziale cambiamento di prospettiva (da quella maschile, propria di una società borghese e padronale, a quella femminile, carica delle attese di una parte di società svuotata e deindividualizzata), nella trasposizione di Ives il piano si sposta da quello politico a quello della farsa e dello sberleffo. La demolizione della identità di Malosti e il successivo ribaltamento beckettiano dei ruoli mettono a nudo le ambiguità di un intellettuale che cerca di sublimare le proprie fantasie (sessuali) attraverso arte e teatro, usando gli attori e le attrici come feticci per le sue perversioni più comiche e grottesche. E alla fine quello che resta non sono altro che le membra di un Penteo ormai ucciso e umiliato dalla baccante Wanda, la tragica parabola euripidea del superbo re di Tebe e della sua fine ingloriosa, privato del proprio sesso e costretto a travestirsi da donna.