Dopo il successo dello scorso anno con il laboratorio teatrale Inscenando, il giovane regista biscegliese Mattia Galantino è tornato ieri sera, venerdì 10 marzo, con la Compagnia Don Pancrazio Cucuziello al Teatro Garibaldi, per cimentarsi nuovamente con il lavoro di Georges Feydeau e inscenare il suo “Sarto per signora”. La commedia è uno dei maggiori esempi del genere farsesco del vaudeville, che da fine ’800 è riuscito nel corso degli anni a rinnovarsi e a mutare forma, declinandosi persino in mezzi espressivi diversi da quello teatrale con le incursioni cinematografiche dello slapstick di Buster Keaton. Dalla licenziosa avventura amorosa del dottor Moulineaux con una donna sposata si susseguono una serie di equivoci, casuali o consapevoli, in un rovo di tradimenti, menzogne e dissimulazioni tra le cui spine si troveranno loro malgrado i protagonisti della vicenda, nessuno escluso. Una pochade che nelle intenzioni dello stesso commediografo francese doveva essere interpretata in chiave tendente al patetico (al contrario della lezione di Čechov, che voleva trasformare i suoi drammi in farse).

Quello di Feydeau è un teatro “a somma zero”, e così alla fine del terzo atto sembra che nulla sia veramente successo sul palcoscenico. Lo status quo iniziale si presenta in conclusione immutato, a testimonianza di una classe sociale (quella della borghesia) che non è disposta a cambiare, così come non lo sono i personaggi che la compongono, complici della stessa dissolutezza. Ma quello che colpisce di questo vaudeville è la maniacale cura per la geometria della scena, nella quale i personaggi sembrano muoversi su diagonali immaginarie destinate ad intersecarsi e a farli sempre inciampare gli uni nei piedi degli altri. Quella che potrebbe ingenuamente sembrare una commedia degli equivoci come altre è in realtà un meccanismo il cui funzionamento non può prescindere dai singoli ingranaggi che lo costituiscono: dai piccoli movimenti del corpo alla porta scassata del mezzanino della sarta. È un teatro fisico dove la risata non è data solo dalla parola, ma piuttosto dalla azione stessa: che sia una trattenuta vigorosa, un sobbalzo improvviso o la caduta da una sedia. Al contrario la parola è invece spesso osteggiata dagli avvenimenti: e così un dialogo può essere bruscamente spezzato da una entrata in scena inaspettata e il racconto di una storia impedito dall’incedere di una musica fuori campo. Persino le movenze degli attori assumono quindi un valore del tutto nuovo. Moulineaux, in equilibrio precario sulle sue scuse poco credibili, sembra muoversi con claudicante incertezza, mentre sicura e dal passo fermo si presenta Rosa, disinibita figura femminile che non nasconde la volontà di avanzare in società grazie alle sue doti sotto le lenzuola.

Tutti gli attori della compagnia, dai più giovani agli adulti, hanno dimostrato una gran voglia di mettersi in gioco, gestendo con bravura i tre atti della commedia e contagiando i presenti con la loro passione e la necessaria leggerezza. I tanti spettatori che hanno affollato il teatro si sono lasciati trasportare dal ritmo incalzante di una farsa senza esclusione di colpi, ridendo di gusto davanti alla meschinità di personaggi comici nelle loro tragiche bassezze. Perché alla fine, come sosteneva Samuel Beckett (che proprio della eredità di Feydeau si era fatto carico): “niente è più ridicolo della disgrazia”. Altrui, naturalmente !

Foto di Gabriele Caruolo