“Chi lavora nei teatri si trova alla periferia dell’industria culturale nazionale, così la cultura di lingua italiana si trova alla periferia dell’intera filiera delle imprese culturali su scala globale. […] Chiediamo […] di essere messi in condizione di competere sul piano della qualità e quantità di opere e rappresentazioni. Chiediamo che gli italiani abbiano ogni giorno la possibilità di scegliere tra produzioni artistiche di pari valore e dignità. Non abbiamo paura di competere, abbiamo professionalità, talenti ed emozioni da vendere. Come secoli fa quando l’Italia, oggetto di storia, l’Italia dominata e divisa da potenze straniere, in virtù della sola forza della sua creatività, impose al mondo la musica italiana. E che dire della commedia dell’arte? Ancora oggi certi ambiti musicali e teatrali si fondano su linguaggi italiani”, questo è solo un estratto di una lunga, profonda e significativa lettera firmata dall’attore pugliese Emilio Solfrizzi e inviata a La Repubblica in cui l’artista chiede a gran voce che “l’antica forza del teatro vada preservata come patrimonio dell’umano”. “Alcuni appelli sono più “forti” e “visibili” di altri, maggiormente ascoltati. Alcuni settori già partono avvantaggiati, già prevaricano su altri”, spiega Solfrizzi riferendosi evidentemente al cinema e alla musica, “La pandemia, all’evidenza, rafforza le diseguaglianze quando non ne crea di nuove. […] In tempi difficili – più che mai – non vanno abbandonati i più vulnerabili e fragili”.
“Sante parole quelle del buon Emilio. L’Italia è amata e rinomata, tra le altre cose, per la cultura. E questo è un paradosso perché è risaputo che chi fa cultura deve arrancare per sbarcare il lunario, eppure siamo sempre lì, sempre in prima fila, sempre pronti a emozionarci per far emozionare”, spiega Lella Mastrapasqua, presidente della Compagnia dei Teatranti, “Spesso ci chiedono interventi gratuiti, di beneficenza, di solidarietà e noi siamo sempre pronti a dir di sì pur di provare e trasmettere quelle emozioni. Ma quando arriva il momento delle rinunce, dei tagli ecco che la prima a essere sacrificata è la cultura. Riapriamo i centri commerciali dove la gente accorrerà in massa, ma i cinema e i teatri dove ognuno potrebbe stare seduto con guanti e mascherina… No! Il mondo può fare a meno della cultura! Bene, allora tutti coloro che lavorano dietro questa cultura possono fare a meno del mondo. Dal macchinista al regista, al costumista al tecnico allo scenografo e via dicendo spieghiamo che il mondo può andare avanti senza di loro, che in tutti questi anni di duro lavoro lontani da casa e famiglia hanno perso tempo, che le emozioni che hanno regalato col loro lavoro erano solo un diversivo del quale adesso si può fare a meno…. Senza cultura il mondo andrà certamente avanti, ma povero e arido, e non sarà più lo stesso”.
“Anche se il nostro è un teatro popolare e amatoriale, avvertiremo presto le difficoltà di questa situazione. Avevamo in programma la riproposizione di ‘Andrà all’aschiure nan parà’ il 1° agosto allo Sporting Club ma è saltato”, commenta Uccio Carelli, regista della Compagnia Dialettale Biscegliese, “Ma credo saremo bloccati anche per dicembre, periodo nel quale presentiamo alla città la nuova commedia. Come si può immaginare di organizzare una serata in un teatro di 400 posti in cui la capienza, molto probabilmente, sarà limitata per legge a 150 o 200 posti? Quante serate dovremmo organizzare? Immaginate i costi da sostenere?”, e poi aggiunge, “E le prove? Come sarà possibile per gli attori provare con mascherine e guanti e a distanza? E’ improponibile. La soluzione non è nemmeno quella di rimandare in onda vecchie commedie, seppur gradevoli e divertenti. Il nostro è un hobby che necessita del pubblico. Se ce lo tolgono, che teatro è?”.
“Si è abbattuta nella realtà teatrale un forte temporale, che ci ha colti all’improvviso. Un colpo di scena che non avremmo potuto immaginare, eppure il teatro si ritrova a dover fare i conti con la sensazione di sentirsi in parte ‘inutile'”, queste le parole del direttore artistico della Compagnia BinarioZero, Giancarlo Attolico, “Alcuni artisti hanno reagito immediatamente altri, come me, son rimasti fermi: non si riesce a scrivere, a leggere, a creare. E’ il tempo dell’ascolto, dentro di noi qualcosa è avvenuto. Il teatro è relazione ci hanno sempre detto, vorremmo negarla ora? Abbiamo bisogno di un pubblico, di sguardi, di contatti. In questi lunghi venti anni ho reagito a parecchi venti contrari, ai tanti colpi di scena, agi esili forzati di una ‘cultura’ cieca e lobbistica, quanti virus silenziosi si sono abbattuti in questi anni: teatri che chiudevano, compagnie che si scioglievano strozzate dai debiti, dai pagamenti non effettuati dagli enti preposti, nel silenzio assoluto di tutti, richieste lavorative quasi sempre ‘gratis’. E’ tempo di ripartire con una nuova consapevolezza”, sottolinea Attolico, “L’artista è un patrimonio. Chi lavora nello spettacolo è un lavoratore (qualunque mansione abbia). ‘I lavoratori dello spettacolo’ tutti, ma proprio tutti, ripartano da una visione ‘comune’, riconoscendo diritti, doveri, altrimenti non ci sarà futuro per nessuno. Il tempo ci rincorre. Il teatro si riprenderà quello che oggi gli è stato tolto: la dignità”.
“Condivido pienamente il pensiero di Solfrizzi anche perché, dietro questa macchina, non lavoro solo io, che sono un lavoratore dello spettacolo, ma tante altre famiglie: come sappiamo per allestire uno spettacolo ci sono tecnici, truccatori, parrucchieri, attori, costumisti e via di seguito, l’elenco è lungo, per questo il teatro non può fermarsi”, mette in rilievo Fabiano Di Lecce, direttore artistico della Compagnia Fagipamafra, “anche perché il pubblico che ci segue vuole guardare gli spettacoli, vuole trascorrere due ore spensierate che solo noi lavoratori dello spettacolo riusciamo a garantire”.