Zan zindaghi azadi. È questo uno degli slogan più riconoscibili e usati durante le proteste che in questi giorni stanno attraversando l’Iran e tantissime piazze solidali con la causa in tutto il mondo. Donna, vita, libertà. Tornano alla memoria le immagini delle rivoluzionarie curde che da anni cantano il corrispettivo nella propria lingua, “jin jiyan azadi”, per dare forza alla loro lotta per la libertà. Sono le stesse tre parole che hanno scandito ieri in Largo San Francesco gli attivisti del Gruppo Giovani 063 di Amnesty International di Bisceglie, scesi piazza per manifestare la propria solidarietà alle donne e agli uomini dell’Iran messi a tacere, arrestati e uccisi dalle forze di polizia “morali” per essersi ribellati al regime repressivo dell’Ayatollah Ali Khamenei.
L’atroce assassinio di Mahsa Jina Amini (ventiduenne proveniente dal Kurdistan iraniano) per mano degli agenti della polizia morale è l’emblema di quarantaquattro anni di aggressione sistematica e di tirannia, che ha garantito la sopravvivenza del sistema attuale imponendo un clima di terrore nella società. In Iran ciclicamente si sono osservate diverse proteste di massa, come quelle del 2009, 2017 e 2019, scatenate da una molteplicità di fattori. L’obbligo di indossare il velo negli spazi pubblici è una norma che esiste da quando è stata istituita la Repubblica islamica e già tre anni fa aveva preso piede una campagna virale che consisteva nel condividere sulle piattaforme social dei video di donne che si toglievano il velo in luoghi simbolici delle città iraniane. Quella campagna ha prodotto decine e decine di arresti di attiviste accusate e condannate per reato di prostituzione o induzione alla prostituzione.
La scintilla che ha innescato le proteste del 2022, però, non ha riguardato direttamente un’attivista, ma una ragazza qualunque, con la quale la popolazione si è potuta immediatamente identificare, torturata e uccisa da quella polizia morale che, sulla base delle norme sull’utilizzo del velo, rese più restrittive lo scorso luglio, hanno intensificato l’osservazione e il pedinamento in strada, punendo anche con frustate, arresti e pestaggi le donne giudicate “colpevoli” di non indossare il velo nel modo corretto. Prive di un leader e di un coordinamento, le contestazioni in corso in Iran sono forse le più rilevanti, per portata e significato, dalla rivoluzione del 1979. Proprio queste due caratteristiche – la mancanza di leader e di coordinamento – possono rappresentare punti di forza e non di debolezza: oggi la repressione non può decapitare le proteste, com’era avvenuto con il movimento verde di opposizione del 2009 e il blocco di internet non impedisce ai dimostranti di fare passaparola e scendere in strada.
Un documento inizialmente segreto che Amnesty ha ottenuto negli scorsi giorni, siglato dal Comando delle forze armate iraniane il 21 settembre, istruiva le autorità provinciali a “non avere pietà” nel reprimere le manifestazioni di protesta “senza esitazione”. È per questo che diverse Ong stanno sollecitando il Consiglio Onu per i Diritti Umani affinché istituisca un meccanismo indipendente di indagine non solo sull’omicidio di Mahsa Amini, ma anche sulle decine di vittime che si sono registrate nelle proteste che sono seguite alla sua uccisione.
In occasione del flashmob organizzato dal Gruppo Giovani 063, è stato possibile firmare l’appello di Amnesty che chiede l’abolizione della legge che obbliga le donne iraniane a indossare il velo, la fine della repressione e dell’impunità per chi sistematicamente termina nel sangue le proteste (è possibile sottoscrivere l’appello anche online cliccando QUI).
Il flash mob del Gruppo Giovani 063 di Amnesty International di Bisceglie è stato organizzato con il sostegno di Amnesty Molfetta, Muvt, Rotaract e RicreApulia.