Il teatrino itinerante, una grande valigia piena di oggetti bizzarri – personaggi intriganti, impiccioni, divertenti, pupazzi di stoffa, maschere di cartone – e una voce intensa da attrice, che rende viva la scatenata fantasia durante ogni spettacolo. Sono questi i “ferri del mestiere” che la biscegliese Valentina Vecchio adopera in giro per l’Italia nel suo lavoro di narratrice e racconta storie.

Si sbaglia chi lo definisce “strano”: «La mia attività è una cosa talmente antica che quando si parla di “nuovo” mi stupisco. La narrazione attraverso oggetti, maschere, burattini è esistita in tutte le culture ed epoche, anche per gli indiani d’America. Originale può essere lo stile, ma il mestiere non rappresenta assolutamente una novità, piuttosto è la tradizione a essere rinnovata e riproposta in forme diverse».

Parlaci un po’ di quello che fai.

«Non mi definisco solo burattinaia, perché nei miei percorsi narrativi utilizzo diversi strumenti, dai disegni ai pupazzi animati a vista, fino agli stessi burattini. Dipende dagli spettacoli, location, richieste e pubblico. In realtà, il burattino è un mezzo con grandi potenzialità, molto evidenti se gli dai anima e respiro, come se fosse avvolto da un’aurea.

Come mai questa professione?

«Tutto è iniziato nel periodo scolastico col teatro in prosa, tipo Pirandello e Shakespeare. Poi ho studiato recitazione all’accademia teatrale “Itaca” di Corato; a seguire uno stage a Londra. Il 2008 è stato per me l’anno della svolta: a Bari ho incontrato il puparo e cuntista palermitano Mimmo Cuticchio, maggior esperto del racconto siciliano tradizionale, famoso nel mondo intero. È diventato il mio maestro. Grazie a lui ho scoperto la dimensione della narrazione basata sull’oralità e ne sono rimasta affascinata. Da qui la decisione di intraprendere questa strada e dare una sterzata alla mia carriera di attrice. È stata, quindi, una scelta precisa».

Come sei riuscita a muovere i primi passi in questo mondo?

«Grazie al mio maestro ho viaggiato molto, portando i miei spettacoli a Palermo, poi in Emilia Romagna, Piemonte, altre zone della Sicilia e in Puglia. Nei vari spostamenti ho avuto modo di conoscere tanta gente, ampliando la mia rete di contatti, fondamentali per la mia professione. Ma grazie ai viaggi è stato anche possibile continuare a studiare, attraverso stage e corsi di formazione. Così ho imparato a costruire maschere, pupazzi, burattini e strutture sceniche con le mie mani».

Da cosa nasce uno spettacolo?

«Non c’è copione, ma non è nemmeno pura improvvisazione. Anzi, alla base di ogni rappresentazione vi è tanto studio e lavoro di ricerca. Tutto parte da una serie di immagini che hai in mente. Esse diventano racconto quando le colleghi l’una all’altra. A seconda del tipo di spettacolo, spazi e fascia d’età, decido cosa portare con me. O, viceversa, a seconda del posto in cui vado decido lo spettacolo. Comunque, si tratta di un processo vivo e molto legato al pubblico. Non interpello direttamente i miei spettatori, ma sorge spontaneo un feedback. Spesso sono loro che intervengono nella narrazione».

A proposito di pubblico, si tratta solo di bambini?

«Ci sono pregiudizi sul teatro di figura. Non è vero che è un’attività solo per i più piccoli: dipende dal tipo di rappresentazione. Anzi, tutt’al più bisogna adattare ritmo linguaggio alla fascia d’età. Infatti, ci sono spettacoli di figura non pensati affatto per i bambini. In generale, però, quelli dai 7 anni in su sono per tutti. Ognuno ci può leggere qualcosa di diverso».

Dunque, ti è utile la laurea in Psicologia.

«Si, spesso scattano dinamiche particolari. Ad esempio, se i più grandi sanno che sta per uscire il cattivo – magari perché conoscono la storia – contribuiscono istintivamente a creare un clima di suspense, portando i piccoli a spaventarsi. Anche un silenzio tombale e l’improvvisa entrata in scena di una semplice testa di lupo in cartoncino possono creare effetti sorprendenti e reazioni emotive diverse».

Com’è il rapporto con la tua città?

«Qui ho lavorato poco, a parte qualche bella collaborazione. Mi muovo di più nel circondario, ma dipende dalle annate. Penso che sia un po’ una questione di opportunità e circostanze. O semplicemente di curiosità, che a volte scarseggia (il mio non è un mondo molto conosciuto a Bisceglie). Ammetto, però, che io stessa non mi sono proposta».

Eppure abbiamo anche noi la nostra maschera tipica.

«Don Pancrazio Cucuzziello è in realtà un vecchio, quindi per reggersi ha bisogno di una spalla giovane. Il Sud Italia ha adottato Pulcinella, mentre al Nord c’è Arlecchino, il dottore e molti altri. Io non le uso nei miei spettacoli, ma ci appartengono per identità. Sarebbe bello, però, lavorare con fiabe tradizionali e storie recuperate, metafore, archetipi, che affondano le radici nelle coscienze di tutti, non solo dei bambini. Mi è piaciuto in particolare il progetto con i ragazzi down in cui raccontavo storie collegate alla cultura biscegliese, dal Dolmen, ai tre Santi che salvano la città dai turchi, fino al cannone del porto. Questo è un filone che vorrei proseguire».

Parliamo di futuro. Cosa ci vedi?

«È presto per definirlo, non ho fretta. Sei anni fa non avrei pensato di essere qui, nel mio laboratorio, a fare questo. Posso solo dire che mi interessa raccontare l’universalità, come ho fatto in ospedale e in carcere, con i bambini autistici e con quelli del nido. Voglio creare, attraverso le storie, scenari condivisi; recuperare la tradizione del racconto e riproporla in una nuova veste, senza cristallizzarla. Ora sono contenta perché sto facendo ciò che mi piace, ma preferisco non parlare di cosa ho in cantiere».

Scaramanzia, una specie di filosofia di vita per chi fa teatro?

«In effetti un po’ è così. Intanto, spero di continuare a lavorare serenamente con “I cavalieri erranti” (nome della sua attività, ndr), vagando e sbagliando, perché il viaggio è conoscenza e gli errori sono necessari per capire tante cose. Mai smettere di porsi domande e cercare risposte, chi si ferma è veramente perduto. Ci sono temi nuovi su cui vorrei soffermarmi, ma per ora si naviga a vista. Non è, infatti, un lavoro basato sulle certezze, quindi preferisco godermi il presente, ma senza fermarmi mai».

Sarà bello scoprire, col tempo, cosa Valentina deciderà di far uscire dalla sua valigia magica.