“Fimmine”, questo il termine dispregiativo con cui venivano appellate le donne che per dieci, dodici ore al giorno, sotto la supervisione dei “Caporali”, lavoravano nei campi ricevendo un compenso minore di quello che spettava agli adolescenti maschi. E “Fimmina” è la donna protagonista del secondo romanzo di Giulio Di Luzio, giornalista e scrittore pugliese, che ieri sera, prima serata dell’ottava edizione della rassegna letteraria “Libri nel Borgo Antico”, ha presentato, nella cornice del chiostro Santa Croce, il suo ultimo scritto “Fimmine. Storie di donne e Caporali” edito da Besa editrice.
A raccontare di quanto fossero diffusi, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, nelle regioni come la Puglia, la Campania e la Sicilia il fenomeno del caporalato, la violenza sulle donne e di come gli stessi lavoratori non conoscessero i loro diritti, Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea, moderatore dell’appuntamento.
“Il libro che ho scritto – ha affermato Di Luzio – ha la funzione di raccontare e descrivere un tema importante come quello dello sfruttamento del lavoro, tema oggi devalorizzato. Il libro presenta diversi momenti di riflessione e cerca di riprendere un tema che è inedito per la narrativa italiana, che si muove adesso su logiche di marketing che non sottendono alla qualità ma alle vendite, facendo sì che i giovani non riescano a pubblicare le loro prime opere”.
L’autore immagina la storia di Titti, bracciante agricola che per fortuna non perderà la vita nei furgoni “della morte”, in cui venivano stipate le donne per andare a lavoro, ma resterà invalida, continuando però a lavorare, e Vincenzino, un “Caporale” che abbandona il suo ruolo e si mobilita con le donne, stanche dei continui soprusi e delle iniquità.
“La chiave per entrare dentro un romanzo – ha concluso Giulio Di Luzio – non è parlare del romanzo stesso. Chiedetemi piuttosto: che strada hai fatto per arrivare sin qui?”.