Da piccolo lo chiamavano “Mumble Mumble” perché stava sempre raggomitolato su se stesso come una pallina di carta stropicciata ed è proprio a quel soprannome che Emanuele Salce, orfano d’arte, figlio del grande Luciano, regista di inossidabili capolavori cinematografici, e figliastro di Vittorio Gassman, ha deciso di dedicare lo spettacolo teatrale che ha aperto la sesta edizione di Scena 84 al Teatro Don Luigi Sturzo. Un viaggio nella sfera privata di un attore che prima di divenire tale, abiurando alla sua iniziale idea di vivere il più lontano possibile da quel mondo in cui i suoi due “padri” si erano distinti, è stato studente universitario in tre facoltà diverse, venditore di polizze che anche lui stentava a comprendere e poi “promettente nullafacente”.
Il suo spettacolo è composto da due funerali e mezzo. Il primo, quello del padre Luciano, il giovane Emanuele deve affrontarlo dopo una notte etilica e con tutte le difficoltà di chi non riesce neanche ad alzarsi dal letto. È con quel mattone in testa e quel fastidioso senso di nausea che il ragazzo deve attraversare il “girotondo”, come lo chiamava Faber, di parenti mai visti prima e di “cassamortari” che giungono con il catalogo di bare e ti consigliano di prendere la più costosa, perché così conviene ad un uomo conosciuto e stimato come lo fu Salce: la bara “eterno sorriso” non può che essere la scelta migliore, magari con una scritta ricamata d’oro che è “tanto fine”, come suggerisce una zia (ma che poi zia lo è per davvero?). E poi tutti i disperati tentativi di contattare la madre, in quel momento in viaggio a Cuba con suo marito Gassman. È proprio a lui, al “maestro”, che è dedicato il secondo funerale. Una scena degna del miglior Fantozzi (reso famoso al cinema proprio dal padre di Emanuele) fra imbucati che tentano di rubare costosissime bottiglie di vino, omaggi di ministri della cultura francesi, e invitati che non possono rinunciare alla semifinale degli europei Italia-Olanda neanche con una salma ancora calda a pochi passi. Così, fra gesti poco edificanti e boati, si consuma il “tifo indiavolato” per un “primordiale cucchiaio di Totti”, sotto gli occhi sbigottiti delle suore. Vittorio Gassman, come recita il suo epitaffio, “fu attore e non fu mai impallato”. Anche per questo nessuno dei suoi amici più cari decise di parlare al suo funerale, perché impauriti dal confronto con il più grande oratore italiano (anche se morto).
Il terzo funerale è invece paradossalmente quello dello stesso attore, invogliato a compiere questo processo di psicoanalisi ed esorcizzazione dal suo amico Paolo Giommarelli. La vicenda che lo riguarda è una “bassa”, da gastroenterologo. Una storia che sembra uscita dalla penna dei fratelli Farrelly, quella di un uomo costipato ormai da dieci giorni che decide di bere una boccetta sana di guttalax per non dover rinunciare ad un appuntamento con una bellissima donna conosciuta in Australia. Emanuele decide, dopo aver “firmato la resa alla stipsi”, di rimettersi nelle mani di Dio (come si dice abbia detto Gassman prima di morire) e di accettare quella visita guidata al museo che però sarà bruscamente interrotta dagli inevitabili “movimenti tellurici” della sua pancia. Lo spettacolo di Emanuele Salce parla di morte con un tono leggero, accettandola con serenità e provocando in chi guarda lo stesso effetto di quella famosa scena del bagno in un film diretto da suo padre Luciano: Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno. La morte è così leggera da farsi bolla di sapone.