Da diverso tempo il tema della mafia sembra essere scomparso dalla discussione pubblica. Persino durante la campagna elettorale in corso, nella quale ogni pretesto sembra valido per alzare la voce, anche su argomenti che dovrebbero restare fuori dalla bagarre televisiva e mediatica, la parola mafianon trova spazio nei discorsi di chi si candida a governare il Paese. Così quel termine sembra essere ormai un lontano ricordo del passato, qualcosa che può esistere solo al cinema o nelle fiction ma che nulla ha a che vedere con la società di oggi. Perché, come spiegato da Giovanni Impastato durante la presentazione del suo libro Oltre i Cento Passi in occasione della scorsa edizione di Libri nel Borgo Antico, nel nostro Paese c’è una percezione distorta sul reale stato di salute della criminalità organizzata: se quando spara la mafia ci fa paura e sembra così vicina, quando opera silenziosamente ci sembra quasi non esistere. A distanza di qualche mese da quell’affollato incontro in Piazza Castello, il fratello di Peppino Impastato è tornato a Bisceglie per incontrare i giovani studenti degli istituti superiori della città, perché è a loro che il messaggio educativo della storica voce di Radio Aut deve arrivare con maggiore forza, così da risvegliare una generazione dalla propria patologica indolenza nei confronti dei soprusi e delle ingiustizie.

Il Bookstore Mondadori delle Vecchie Segherie Mastrototaro è stato ieri, domenica 21 gennaio, cornice di una serata durante la quale sono risuonati due nomi che in qualche modo sono stati simboli di resistenza e ribellione: quello di Peppino, il cui coraggio non è stato perdonato, ma anche quello di sua madre Felicia, che dopo l’assassinio del figlio decise di cacciare via dalla propria casa i parenti ancora legati alla criminalità organizzata. Una presa di coscienza che si è trasformata poi in impegno civile, culminato con la trasformazione della sua stessa abitazione nella ormai celebre Casa Memoria, testimonianza tangibile di una storia che non può ridursi a semplice retorica ma deve servire da sprone per uscire da una rassegnazione dilagante che fa il gioco della mafia (e di altre organizzazioni ad essa riconducibili non meno pericolose per la nostra democrazia). Così il libro di Giovanni Impastato fugge dalla eroizzazione della figura di suo fratello. Ma ciò non vuol dire non riconoscere a Peppino una eredità che è stata fondamentale per i movimenti antimafia nati successivamente, specie nell’uso della cultura come mezzo di emancipazione (si pensi al Circolo Musica e Cultura), ma rendere chiaro che il bisogno di verità deve essere una esigenza comune e non prerogativa di pochi uomini giusti, eroi irraggiungibili. 

Dobbiamo chiedere a gran voce che il tema della lotta alla mafia torni ad essere centrale. Perché se è vero che, come dice Giovanni Impastato, la criminalità organizzata è arrivata al cuore dello Stato, non possiamo più restare in silenzio davanti a chi vuole farci credere che quella montagna di merda, per citare testualmente Peppino, non puzza più come un tempo. E quando si parla di mafia per negarla e non per accusarla, quando persino la Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni diviene fumosa (come è stata definita da alcuni opinionisti ed esponenti politici), quando ci si rallegra se qualche giudice nega l’aggravante di associazione mafiosa a criminali immersi in giganteschi sistemi di spartizione del potere (come quello di Roma), bisogna ricordarsi della lezione di Peppino Impastato. Che “la mafia uccide, il silenzio pure”.