Anche l’improvvisazione, contrariamente da quanto il pensiero comune ci suggerirebbe, è una “disciplina militare”, che segue regole precise ed opera entro confini rigidi proprio come il teatro “da copione”. È per questa ed altre ragioni che Paolo Rossi, che è andato in scena ieri sera, venerdì 1 dicembre, al Teatro Garibaldi con il suo “L’improvvisatore – L’intervista”, spesso paragona la sua arte con il jazz. E non è un caso che lo scopo di un certo modo di fare teatro comico sia proprio lo stesso di quel genere musicale. Come un musicista cerca di trasformare una frase melodica già conosciuta in qualcosa di nuovo e spiazzante, così un “giullare” da palcoscenico cerca di rendere in chiave umoristica ciò che nella nostra esperienza quotidiana non è necessariamente esilarante. E a teatro come nel jazz è fondamentale il “timing”: capire quando può essere il momento giusto per osare o quando invece è meglio trattenersi e comprendere come una certa frase, se pronunciata poco prima o poco dopo, possa avere un effetto completamente diverso su chi ascolta.

Così lo show “demistificante” di Paolo Rossi, dove la falsa coscienza della nostra società è costante oggetto di derisione, comincia dalla sua fine, con il dibattito sullo spettacolo appena visto (ma in realtà non ancora cominciato) tanto caro a quei circoli culturali che Paolo Villaggio derideva ne Il Secondo Tragico Fantozzi. E per una strana coincidenza del destino ieri sera alcune sedie del Teatro Garibaldi erano vuote forse proprio a causa di un evento sportivo. Magari lo stesso Rossi dal palco si sarà chiesto se qualcuno di nascosto non stesse seguendo la radiocronaca della partita di calcio con gli auricolari come gli spettatori fantozziani del cineforum del dottor Riccardelli, tanto da domandare prima del bis ai presenti in sala aggiornamenti sul risultato: “Qualcuno per caso ha dato una occhiata al cellulare ?”. Cercando di mettere a fuoco la realtà attraverso la sferzante lente della comicità, Paolo Rossi si scusa anticipatamente con quelle persone che son solite recarsi a teatro per dormire ed imbastisce uno spettacolo che continuamente si fa e si disfà in risposta agli stimoli di chi guarda ed interagisce.

La conclusione è affidata a due dei pezzi teatrali più celebri della sua carriera: quello della economia capitalista spiegata ad una mandria di vacche e la dissacrante esegesi de I Giardini di Marzo. Emblematica è certamente la scelta di un “bersaglio” come Lucio Battisti, il cantante che per anni è stato il tabù di quella sinistra impegnata nella quale lo stesso comico milanese si è riconosciuto e che ora prende in giro ricordando gli spettacoli semi deserti alle Feste dell’Unità dove all’Amleto si preferivano le salamelle. Ma il suo teatro anarchico è forse anche un teatro che ci chiede conto di un Paese che rimane fermo. Ancora oggi il nome di Silvio Berlusconi, uno dei soggetti che è stato più frequentemente preso di mira dalla satira più feroce, non serve a rievocare un passato alle nostre spalle ma a rappresentare un presente sempre uguale a se stesso. Per questo Paolo Rossi, nel Paese di Minniti e degli accordi con la Libia, può portare nuovamente sul palco, senza paura di risultare anacronistico, il “Cristo clandestino” del suo Mistero Buffo in versione pop datato 2010, in cui all’epoca ci si chiedeva: “Se tornasse Gesù cosa succederebbe, sempre che Maroni lo faccia passare?”.

E la grande forza della satira di Rossi è quella di essere ancora dirompente anche in un tempo in cui i “governanti” non si inviperiscono più con i comici che li prendono in giro ma anzi li cercano nei talk show, consapevoli che incassare i colpi con il sorriso sornione sulla faccia può garantirgli qualche zero virgola in più nei sondaggi. Questo il comico milanese lo sa bene e per questo cerca persino di non nominarli con nome e cognome sul palco, per “non dare loro troppa importanza” e perché per deontologia “dei colleghi non si parla mai male”.

Foto di Daniela Mitolo.