Nella primavera del 1977 una voce dal marcato accento siciliano comincia a denunciare l’omertà vigliacca dei propri compaesani e a raccontare le scie di sangue lasciate dalla mafia. La voce era quella di Peppino Impastato, che solo poco più di un anno dopo sarà brutalmente ucciso proprio dai quei criminali che cercava di stanare, e le frequenze erano quelle di Radio Aut da Cinisi: presidio di legalità nella città feudo del boss Tano Badalamenti. Giovanni Impastato è stato ospite ieri sera, sabato 26 agosto, di Libri nel Borgo Antico per mantenere viva la memoria di suo fratello Peppino, ma anche per tracciare un quadro della situazione delle mafie nel nostro Paese grazie ai dati raccolti dall’osservatorio di Casa Memoria e dal Centro Impastato. Oltre i Cento Passi, come spiega il suo stesso autore, non è un’opera di denuncia o di inchiesta, ma la testimonianza concreta del percorso lungo e tortuoso che si è dovuto seguire per fare in modo che il messaggio e l’eredità di Peppino non si dissolvessero nel nulla.
Tante persone, tra cui molti giovani che hanno appreso di quella vicenda solo attraverso il racconto dei propri genitori, hanno deciso di raccogliere quel testimone e di impegnarsi direttamente per perpetuare il ricordo di quel nome, ma soprattutto per continuare con tenacia la lotta contro un male che è ben lontano dall’essere estirpato. Nel nostro Paese c’è una percezione distorta sul reale stato di salute della criminalità organizzata. Se quando spara la mafia ci fa paura e sembra così vicina, quando opera silenziosamente ci sembra quasi non esistere. Ma è vero proprio il contrario: è quando la mafia non sente il bisogno di sprecare proiettili che è più forte e più attiva che mai.
Se è giusto e sacrosanto celebrare la figura di Peppino Impastato ed onorare il coraggio che gli è costato la vita, lo è altrettanto ricordare la forza della madre Felicia. Una donna che in qualche modo incarnava le contraddizioni di una regione, moglie di un mafioso e madre di un militante antimafia, che dopo la morte del figlio decise di cacciare via di casa i propri parenti legati all’ambiente criminale. Una madre che ebbe la fermezza di guardare negli occhi lo “zio americano”, giunto durante la veglia funebre per dichiararle la volontà di vendicare la morte del figlio (“Peppino Sanguepazzo era uno di noi”), per gridare che “no, non era uno di loro” e che lei “vendette non ne voleva”. È stata lei a trasformare la propria abitazione nell’ormai storica Casa Memoria con la decisione di lasciare quella porta sempre aperta affinché la vicenda di Peppino non venisse dimenticata.
In nome di quel rapporto speciale che lo univa alla sua genitrice tra complicità e protezione, Peppino le dedicò i versi della celebre supplica di Pier Paolo Pasolini: “Sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù” . E persino il padre, dopo averlo cacciato di casa, cercò in tutti i modi di mediare con l’ambiente di cui lui stesso faceva parte per salvare il proprio ragazzo. Ma era già troppo tardi, come dimostra il drammatico epilogo scritto nelle pagine di cronaca, perché quando sei “punciutu” la cupola non perdona alcuna resistenza neanche per proteggere i propri cari. L’eredità che l’esperienza di Peppino ha lasciato ai movimenti antimafia è enorme. Non bisogna scordarsi del percorso di emancipazione culturale portato avanti con il Circolo musica e cultura e quello di lotta per i diritti delle donne (uno dei primi movimenti femministi siciliani è nato proprio in seno a quel circolo). Il ricordo di quel giovane attivista siculo morto troppo presto, ancora prima di conoscere il risultato delle elezioni che lo avrebbero portato in consiglio comunale o di ricevere il tesserino da giornalista, vive ancora a distanza di anni. Ma il ricordo da solo non basta e da quella esperienza bisogna trarre la forza di continuare a combattere per la legalità. Quella “montagna di merda”, come la chiamava lui, è ancora lì e non possiamo girare il capo dall’altro lato.