Rivelandosi periodicamente sulla scena del pensiero, lo scetticismo costituisce un ospite insidioso nella storia della filosofia. La fondazione dei molteplici settori in cui si articola l’esercizio umano del sapere – la scienza, l’etica, la religione, l’arte e così via – viene in qualche modo turbata dal sopravanzare, in alcuni momenti della storia, dell’esigenza che invita ripetutamente al dubbio. La solidità e la complessità dei traguardi conoscitivi che abbiamo raggiunto, nonché il valore che essi assumono per la vita associata degli uomini, ci rendono spesso disagevole tentare un ripensamento delle esperienze che hanno costituito il tragitto verso il raggiungimento dei traguardi stessi.
Per di più l’apprensione con cui guardiamo al rifiorire del dubbio rimanda alle potenzialità della scepsi (l’esercizio della contestazione) ossia all’efficacia metodologica delle sue rivendicazioni. A partire da un’esigenza di metodo – dubitare di ciò che tutti reputano verità accettata – il dubbio scettico sembrerebbe spesso condurci verso una diffidenza generalizzata, un sospetto radicale che nega la legittimità e fondatezza delle nostre credenze, delle nostre certezze, delle nostre aspirazioni. E ciò capita a maggior ragione nel caso in cui un’idea o una cognizione, che riteniamo indici di verità, ci permettano di illuminare una porzione di realtà, per riconoscerla depositaria di un sapere comprovato e inequivocabile; motivo sufficiente a designare quella cognizione come “segno”, “criterio” di validità scientifica.
Se si guarda al susseguirsi delle scuole di pensiero nella storia, si constata molto presto l’assenza di un criterio accettato da tutti come portatore di verità assoluta. Persino la logica, che con le sue regole e le sue dimostrazioni si presenta come il regno dell’oggettività, subisce spesso il cruccio del dubbio, il castigo della critica che richiede ininterrottamente, oltre al rigore, l’inoppugnabilità dei principi, delle premesse con cui elaboriamo un ragionamento. Sotto questo profilo, come affermava Mario Dal Pra, celebre storico della filosofia, nel volume del 1975 dedicato a ricostruire la genesi dello scetticismo antico in Grecia: «la critica si insinua nelle pieghe della ricerca accompagnandola costantemente; e la ricerca continua oltre ogni dato, insoddisfatta e inarrestabile» .
L’insidia del processo risiede nelle conseguenze che derivano inevitabilmente quando si eserciti il dubbio sino in fondo; il rischio inevitabile è quello di contestare la verità di qualsiasi idea, l’ammissibilità di qualsiasi nozione. Lo scettico, dunque, con le sue perplessità e la sua diffidenza, sembrerebbe condurci a un epilogo drammatico: svalutare qualunque pronunciamento della ragione, negare all’intelletto la facoltà di giudicare su ogni cosa. Come sottolineava ancora lo stesso Dal Pra, questa operazione si traduce conseguentemente nella:
«persuasione della debolezza e inconsistenza di tutte le definizioni dell’essenza del reale. Si giunge così, nello sviluppo della ricerca teoricisticamente impostata, alla negazione radicale e totale, cioè allo scetticismo. Tutti i discorsi circa l’essenza della realtà, si osserva, sono egualmente arbitrari, egualmente indimostrabili e tautologici; l’uno non vale più dell’altro e la critica che ognuno fa degli altri si ritorce sullo stesso. La ricerca dell’essenza del reale non può avere compimento e la teoria fallisce nel suo scopo; il significato del reale ci sfugge interamente.”
Se la filosofia accogliesse incondizionatamente la lezione dello scettico, accetterebbe un quadro dell’intelligenza umana caratterizzato da estrema precarietà e debolezza, in cui poco spazio sarebbe riservato all’utilità delle scienze, alla ricchezza dei saperi. La ragione stessa, intesa come sforzo inesauribile di fuoriuscire dall’ignoranza e dalla dappocaggine, nonostante i suoi sforzi millenari in direzione contraria, risulterebbe incapace di farsi portavoce di un’istanza conoscitiva universale e, per di più, inadatta a promuovere un’istanza etica che valga per tutti. Non sapere, infatti, significa non poter agire; e oltre al pensiero è l’azione che ci rende davvero umani.
Uno scettico d’eccezione come Michel de Montaigne scriveva nei suoi Saggi che lo scetticismo ci costringe a riconoscere la vanità di quella «fantasia, che la ragione umana è sindacatrice generale di tutto quello che c’è al di fuori e al di dentro della volta celeste, che abbraccia tutto, che può tutto, e per mezzo della quale tutto si sa e tutto si conosce. »
Tuttavia, se queste sono davvero le presunte “verità” che lo scettico vorrebbe insegnarci, potremmo interpretare questo gioco al dubbio in tutt’altro modo, più costruttivo e meno esiziale. Dietro il paradosso del “sappiamo che non possiamo sapere”, si nasconde in realtà un problema serio e autorevole, che riguarda i fondamenti della nostra cultura, cioè le basi del rapporto che noi uomini istituiamo con noi stessi in quanto realtà sociale. L’interrogazione scettica, apparentemente circoscritta al valore da attribuire ai mezzi che abbiamo per conoscere le cose, si presenta in realtà, al di là della superficie, come una domanda sullo statuto della nostra civiltà, sul significato e sullo scopo della cultura che le pertiene, cioè sul valore del nostro stare al mondo.
Non deve stupire allora il fatto che la perplessità scettica rappresenti più esattamente una diagnosi: l’accertamento di una crisi interna al sapere, e che alla diagnosi si accompagni la volontà di ripensare il concetto di umanità:
«Nella storia della filosofia – sosteneva il filosofo tedesco Ernst Cassirer – lo scetticismo è stato la semplice controparte di un deciso umanismo. Col negare e distruggere la certezza oggettiva del mondo esteriore lo scettico spera di ricondurre il pensiero dell’uomo verso il proprio essere. Egli afferma che la conoscenza di sé è la condizione prima e necessaria per la realizzazione di sé” .
Se lo scetticismo è diagnosi di una crisi dei saperi nel loro sviluppo storico, ossia riconoscimento della cesura che si è prodotta tra cultura e umanità, scetticismo è al contempo la rivendicazione di un nuovo umanesimo. Lo scettico insegna appunto questo: l’evoluzione della cultura, la produzione massiccia di contenuti e di forme che chiamiamo “prodotti” dell’intelligenza (scoperte scientifiche, opere d’arte, riflessioni etiche, codici legislativi, testi religiosi, filosofici e così via) ha travalicato nel tempo la centralità dell’uomo come fine stesso della dimensione culturale. La cultura, in quanto rivendicazione della specificità umana nel mondo naturale, ha perso di vista il proprio scopo e il proprio senso, trasformandosi in un’inesauribile produzione senza scopo di contenuti e forme, di cognizioni e pratiche. E se ciò non bastasse, per lo scettico la scissione tragica tra umanità e cultura non costituisce affatto un episodio singolare della nostra storia, bensì coincide con la vita stessa della cultura.
Tuttavia, in conclusione, bisognerà considerare il rifiorire del dubbio, l’episodico riproporsi del richiamo allo scetticismo, come un sintomo peculiare, espressione vivida di una fragilità che caratterizza la nostra civiltà: ossia lo smarrimento di una cultura che dimentica l’uomo, i suoi bisogni e le sue aspirazioni, le domande che tutti noi rivolgiamo costantemente all’educazione dei nostri corpi e alla crescita delle nostre anime.